CIO' A CUI NEL CUORE BEN POCO ASSOMIGLIO
Il lavoro parte dall’analisi del testo e dalle atmosfere di una tra le più belle poesie di tutto il ‘900: “Supplica a mia madre” (di P.P. Pasolini) reinterpretandone il senso attraverso l’uso di un codice fisico, coreografico e vocale.
La prima parola che compare nella lirica è (è)“Difficile”. Sul senso di questa parola verte tutto il lavoro, basato sullo struggimento appassionato, a volte ambiguo e dai chiari riferimenti edipici, del poeta. La difficoltà di svelarsi, raccontarsi, toccarsi, difficoltà di amare, esplodere, piangere. Difficoltà di accarezzare il corpo e l’anima della creatura più importante per l’autore: la propria madre.
Alle parole del poeta vengono legate le esperienze personali degli interpreti. Suggestioni del presente e ricordi d’infanzia, come il rito “purificatore dell’acqua” ad esempio, che acquista nella scena una duplice valenza, raccontando l’amore sotto svariate sfaccettature: l’amore tra madre e figlio, uomo e donna, malato e accudente, giovane e anziano. O l’ “infinita fame di corpi senz’anima” del poeta, qui ambientata nel buio di una dark room, all’interno della quale coesistono momenti di eccitazione e di angoscia.
La solitudine e il senso di sconfitta di chi sopravvive alla morte, concludono la piéce con un messaggio di smarrimento e tragica speranza.
credist
regia: Emiliano Minoccheri
con: Veronica Strazzari e Emiliano Minoccheri
foto di scena: Nicolo’ Montevecchi
e Enrico Maria Bertani
assisetenza tecnica: Benedetta Carmignani
recensioni
Ciò a cui nel cuore ben poco assomiglio è una traduzione coreografica della poesia di Pier Paolo Pasolini Supplica a mia madre, straziante dichiarazione di amore e di angoscia all’unica donna della sua vita, che è grazia e catena, spirito e tomba, che lo condanna alla solitudine con la sua insostituibile, ineludibile presenza. Non è propriamente teatro, né danza, né l’ennesima rielaborazione del teatro-danza così come lo conosciamo da Pina Bausch in poi: questo lavoro è un’indagine intima e discreta, condotta con umanità e senza spocchia, che sa toccare l’emotività dello spettatore e restituirgli un’immagine intima, profondissima dell’uomo che ha cambiato per sempre la letteratura contemporanea. L’uomo, appunto, più che l’artista: l’uomo alle prese con le difficoltà del cuore, con i suoi inconfessabili segreti, con la sua «infinita fame d’amore, dell’amore di corpi senza anima». Il dolore si traduce in gesti vincolati, in avvicinamenti impossibili tra i due (Emiliano Minoccheri è il poeta, Veronica Strazzari è la madre) in un continuo passo a due, a volte danzato, a volte reso in una interazione più teatrale, che li vede anelare uno alla verità dell’altra, per liberarsi, ma la liberazione non avviene. I gesti e gli inserti musicali non rivelano la ricerca di un’originalità a tutti i costi: Ciò a cui nel cuore ben poco assomiglio funziona proprio per la sua semplicità, per la sincerità palese per cui è concepito. Una splendida occasione per rileggere e “rivivere” gli indimenticabili versi pasoliniani.
(Silvia Ianniello)
“È difficile dire con parole di figlio/ciò a cui nel cuore ben poco assomiglio.”
Il 25 aprile 1962 Pier Paolo Pasolini compose questa lirica per la madre: una dedica dolce e forsennata, dichiarazione d’amore incondizionato, supplica e al contempo confessione di una condizione umana che il poeta esplicita per la prima volta nero su bianco: l’impossibilità di amare qualsiasi altra donna all’infuori della madre e contemporaneamente un “fame d’amore di corpi senz’anima”, bisogno insaziabile e - all’epoca - difficilmente affrontabile pubblicamente. Il rapporto strettissimo tra madre e figlio che emerge da questa lirica (e non solo , visto che il poeta aveva e avrebbe dedicato altre poesie alla madre) viene ripreso in uno studio curato dal bolognese Emiliano Minoccheri, in scena con Veronica Strazzari. Nel buio pesto della sala Gassman del Teatro dell’Orologio, i due attori si cercano, si lasciano, si rincontrano a ritmi cadenzati della musica elettronica: è una danza d’amore e di lotta, un incontro violento e dolce allo stesso tempo, in cui i corpi si muovono abilmente in sincrono fino a sembrare una cosa sola. Una drammaturgia semplice - uno studio, appunto - che lavora molto sulla fisicità: il corpo che si dimena e si consuma nel movimento e nelle cadute: metafora di un vuoto tutto interiore, dell’animo, della solitudine, della paura dell’abbandono, dell’impossibilità di separarsi da quell’entità insostituibile, “madre - amore e schiavitù” che infatti resta in scena fino alla fine.
(Francesca Saturnino)